Trent’anni fa Osvaldo Ardenghi imperversava nelle valli bergamasche lanciando fuoco e fiamme
dalla sua Stratocaster che evocava, una sera sì e l’altra pure, il fantasma di
Duane Allman. A differenza di oggi, la sfida non era trovare un posto dove
suonare, ma uscirne vivi e da lì, archiviate le glorie della Moss Band, Osvaldo
Ardenghi ha scelto mille peripezie per continuare a strapazzare le sue chitarre
che l’hanno portato a collaborare tanto con Enzo Jannacci quando con i Rusties
di Marco Grompi (poi suo complice all’armonica e ai cori). La sfida più
importante, alla fine, è quella con le proprie radici e Osvaldo Ardenghi l’ha
affrontata colorando i fiumi, la ghiaia, i ricordi dell’infanzia, la serie B
dell’Atalanta, le piazze e gli orti, tutto un piccolo mondo antico che ancora
(e per fortuna) resiste all’incuria, con i suoni di una rock’n’roll band ed è
così che una delle più intime dediche che si siano sentite al paesaggio
(bergamasco e non solo) Drec al cör,
suona come una canzone dei Crazy Horse (compreso il finale elettrico) o la
storia di un good old boy diventa, sì, Ü brao scet (un bravo ragazzo, nella traduzione corretta) ma
mantiene le sue prerogative country & western. Il dialetto delle valli si
presta alle scorribande elettriche di Osvaldo Ardenghi (La dea sembra persino un riff degli X) e per uno che va in
giro con l’autografo di Warren Haynes sulla chitarra arrivare Drec al cör è il minimo che si merita. (Stefano Hourria)
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