mercoledì 11 dicembre 2019

Mandolin' Brothers

Dopo quarant’anni una rock’n’roll band potrebbe accontentarsi di ripetere il miracolo della sua sopravvivenza, come fanno i Rolling Stones, del resto, e invece i Mandolin’ Brothers, che hanno più o meno la stessa longevità, fuggono ogni tentativo di celebrazione e si rimettono in gioco. 6 è la prova tangibile di un passione che va ben oltre le incombenze quotidiane e si alimenta di un’aderenza a uno stile e a un’identità (che tutti questi anni non sono passati invano) così come si nutre di una costante curiosità. Per cui se i Mandolin’ Brothers suonano più compatti e coesi che mai, probabilmente grazie anche alla collaborazione coordinata e continuata con Jono Manson, ormai parte in causa della storia, d’altra parte sfoggiano divagazioni strumentali (le slide e l’organo che si inseguono in My Girl In Blue) che un tempo erano riservate agli spazi dei concerti, distribuiscono le armonie vocali con rinnovata saggezza e aggiungono altri dettagli alla loro visione del songwriting. Pur essendo un album ingolfato di chitarre, 6 trova il modo di collezionare canzoni degne di stare in un’ipotetica antologia dei Mandolin’ Brothers e sono da citare almeno Down Here, It’s Time, A Sip Of Life, la soffusa Lazy Day nonché il poderoso riff di Lost Love, che non ha nulla da invidiare ai Black Crowes. Nelle pieghe di 6 c’è molto altro da scoprire, ma più di tutto c’è la splendida anomalia dei Mandolin’ Brothers, una rock’n’roll band con un grande passato alle spalle, e un occhio sempre puntato sul futuro. (Marco Denti) 

giovedì 24 ottobre 2019

Grand Drifter

Nella realtà di Lost Spring Songs c’è più Regno Unito che Stati Uniti, ci sono i Beatles (versante John Lennon) che si riconoscono dal gusto pop raffinato, a cui vanno aggiunti una punta di malinconia e un tratto psichedelico. A convogliare tutto quanto nei Grand Drifter è Andrea Calvo che nell’occasione raduna i Knot Toulouse del mai dimenticato Gianrico Bezzato e i vicini di casa Yo Yo Mundi (produce Paolo Archetti Maestri) più qualche amico e amica a seguirlo nelle sue melodie. A dispetto del titolo, l’elenco comprende una dozzina di ballate autunnali, che spaziano da Circus Days, una canzone incantevole che in un mondo più felice sarebbe l’hit mattutino di ogni radio, a temi più incalzanti come Junkyard o Flesh And Bones o The Way She Knows, dove Lost Spring Songs tradisce una certa familiarità anche con le invettive delle “garageland” e dintorni. Senza esagerare: gli arrangiamenti restano sempre molto misurati e variano da una selezione di chitarre acustiche ed elettriche, pochi accordi di pianoforte ben distribuiti, un sacco di armonie vocali, un’armonica morriconiana, bizzarre tastiere che un tempo si sentivano solo nei dischi degli XTC e altre polverine magiche sparse tra strofe e ritornelli, dove Grand Drifter alias Andrea Calvo sa creare un’atmosfera unica e in grado di reggere tutte le Lost Spring Songs. Ecco, le canzoni hanno una grazia che ormai è difficile trovare, in particolare in Italia, e il suono ha anche una sua grezza fragilità che senza dubbio è una componente della poetica dei Grand Drifter, e per fortuna, perché non se ne può più di dischi gonfiati a dismisura, come se dovessero occupare tempo e spazio, più che regalare emozioni. Lost Spring Songs, al contrario, s’insinua con la gentilezza di una pioggia dopo una lunga siccità, dura poco meno di quarantacinque minuti, come un antico vinile, con tutti i suoi “rumori umani” e, ascolto dopo ascolto, si rivela uno dei dischi italiani più belli degli ultimi anni. (Marco Denti)

sabato 1 giugno 2019

Emanuele De Francesco

In un momento in cui la musica italiana sembra essere collassata su se stessa, in un gorgo senza senso di parole e suoni a caso, Lettere al neon è un piccola luce, molto coraggiosa nel cercare sfumature intense e delicate. Emanuele De Francesco gioca con le ombre, con i silenzi, con le pause assecondato in questo dalla produzione (molto accorta) dei colleghi Evasio Muraro e Lele Battista, Un team esiguo ed essenziale (completato dall’efficace batterista Maurizio Gaggianesi e da Moreno Zaghi alle chitarre) che trasferisce al suono di Lettere al neon una personalità concentrata ma sufficiente per far risaltare le canzoni di Emanuele De Francesco. Il gusto è pop, nella sostanza, ma dentro quei contorni emergono molte sequenze raffinate che fanno di Lettere al neon un’oasi dove si respira l’aria migliore del grande cantautorato italiano, e non. Con un’attenzione specifica alle atmosfere evocate dalle osservazioni notturne (In silenzio e Nei percorsi della notte), un sorprendente loop in Irene nel vuoto, le suggestioni elettriche nella riflessione puntualissima di Televisione e la brillante escursione di Tutto ha un nome?, Emanuele De Francesco condensa in poco più di mezz’ora una notevole progressione rispetto all’esordio (peraltro pregevole) di In quieta mente, e si trova il suo spazio con grande decisione e intraprendenza, ma anche con una grazia nel cantare, quasi sottovoce, quasi chiedendo permesso, che ormai è sconosciuta, e che nei colori sgranati di Lettere al neon è il regalo migliore. (Marco Denti)

lunedì 13 maggio 2019

Victor Cos

Singolo d’esordio del chitarrista Victor Cos alias Vittorio Cossu, Black And Star è un brano strumentale che si sviluppa con grazia e intensità per quattro minuti e quattordici secondi. Supportato dalla fantasiosa e compattissima sezione ritmica di Matteo Balani al basso e Federico Paulovich alla batteria, Victor Cos dipana le sue trame chitarristiche con una ricchezza di variazioni che, senza perdersi in sterili virtuosismi, tendono a inseguire l’evolversi delle melodie. L’effetto, più che un saggio sulle possibilità della chitarra elettrica, è quello cinematico di una colonna sonora dove il gusto per i maestri californiani, da Steve Lukather a Eddie Van Halen emerge frullato e ricomposto nel personalissimo fraseggio di Victor Cos che preferisce le note giuste al posto giusto, piuttosto che un diluvio eccessivo di riff senza senso. Black And Star si evolve così, con una sua gradevolezza ma anche con una sua forza determinata dalla coesione del trio e dall’eccellente qualità sonora di Larsen Premoli. Victor Cos pare a suo agio in tutti i passaggi, che non sono mai banali e tendono a rincorrere una voce, scegliendo atmosfere ricche di armonici, piccole rifiniture tra un passaggio e l’altro e svelando un gusto, ormai piuttosto raro, per un’idea strumentale che sia efficace e accattivante nello stesso tempo. Poi, una sola canzone può dire tutto oppure no, ma intanto per Victor Cos è un ottimo biglietto da visita. (Marco Denti)

venerdì 29 marzo 2019

Michele Anelli

Chi vive per e/o con la musica, e a maggior ragione se si tratta di rock’n’roll, sa che deve confrontarsi con due dimensioni del tempo. Una è quella lineare, dei giorni da usare, delle ore e dei calendari, e l’altra è una curva imprevedibile che deve la sua traiettoria a fattori tutt’altro che identificabili. Divertente importante, nuovo e definitivo sforzo di Michele Anelli nell’ambito del cantautorato italiano, nasce proprio sull’onda dell’attrito tra una cronologia scandita dalle urgenze e dai riflessi della realtà e, non di meno, la necessità di stare “dentro un gioco molto grande”, come canta in chiusura di Raccolgo idee. Quanto di “divertente” ci sia da una parte e quanto di “importante” ci sia dall’altra resta indefinito, anche perché è evidente che nel corso del disco, i due aggettivi tendono a sovrapporsi e a scambiarsi le rispettive collocazioni. Del resto la giornata di Divertente importante è piuttosto lunga: si comincia all’alba (ore 6.13) e si finisce con la Buonanotte delle 23.43 e Michele Anelli, che oltre a cantare di fa carico delle chitarre, lo occupa con un ristretto combo di musicisti, comprendente Andrea Lentullo alle tastiere e Nick Taccori alle chitarre, nonché Elia Anelli ancora alle chitarre e Paolo Iafelice alla produzione. Un’essenzialità che offre a Divertente importante un’omogeneità e una coerenza inedite tra le atmosfere soulful di Ignora gli ordini alieni ed Est e le tensioni più elettriche di Ruggine e Ruvida emozione e quelle più rarefatte di Invisibili. Gli incisi strumentali, tutti molto belli ed eleganti, canzone dopo canzone, ora dopo ora, tendono a levigare i contrasti fino a sommarsi e a rendere Divertente importante il disco più personale e immediato di Michele Anelli. (Stefano Hourria)

giovedì 28 marzo 2019

Fungus

Dalla fucina dei Downtown Studios di Pavia, un nuovo capitolo arricchisce l’avventura dei  Fungus. L’ensemble a geometria variabile, eclettico, eccentrico ed eterogeneo nella composizione, ma coerente alla sua natura visionaria e psichedelica, sviluppa gli Stati uniti del nulla (un ottimo titolo) partendo dall’attitudine libera e curiosa di sempre, eppure con un’inedita consapevolezza delle forme musicali. Alla dirompente carica ritmica sviluppata da Basna (basso, stick) e da Pupo (nessuna parentela con l’omonimo) alla batteria, si sovrappongono e si intersecano le divagazioni chitarristiche di Guido (i cognomi sono banditi) e la formula, pur assecondando il gusto dell’improvvisazione e dell’estrapolazione proprio dei Fungus, si mantiene intatta in tutte le prospettive su cui si dipanano gli Stati uniti del nulla. Un’identità ormai molto solida e riconoscibile che garantisce gli spazi ideali per modellare le canzoni che sono una piccola sorpresa. Strettamente connessi alle iperboli strumentali dei Fungus, i versi sono provocazioni iconoclaste, assemblate con gusto dadaista, ma anche con un senso spiccato per le immagini e per le metafore, e, non ultimo, con la sana propensione ad attraversare inediti universi, senza dimenticarsi (anzi) l’amara realtà che ci circonda. Una percezione coraggiosa ed esplicita che dice, in Stati uniti del nulla: “All’orizzonte vedo distese di alberi morti, il cielo non ha più colore, il sole è oscurato, questo non è un sogno, io ho visto il futuro”. È solo un esempio, poi nell’acido turbinio dei Fungus, emerge in Esagono, un verso genialoide che è molto raro sentire in una canzone italiana: “Son rimasto prigioniero di un esagono, senza capire come ci sia finito, per uscire devo fare il perimetro, ma ogni lato è un numero periodico”. Caotici, spiritati, fin troppo intelligenti: questi sono gli Stati uniti del nulla. Per il resto, va da sé, c’è sempre Sanremo. (Marco Denti)

martedì 26 marzo 2019

Hellm

Gli Hellm si rivelano una realtà ben consolidata e, nonostante la novità della sigla, ormai esperta nell’affiancare Luca Milani. Federico Olivares è un chitarrista che ha la rarissima qualità della sintesi e il suo lavoro è fatto di poca appariscenza e molta, moltissima sostanza, così come l’incessante e dirompente assemblaggio ritmico di Giacomo Comincini alla batteria e Riccardo Marchesi al basso. All’urgenza del rumore (e in Idols comunque se ne sente parecchio) e dell’energia, gli Hellm, proprio a partire da Luca Milani, hanno saputo dare una forma più elastica con soluzioni brillanti, a tratti persino eccentriche come succede in Fun o con l’intelligente arrangiamento della  tromba in Ready To Fall. Piccole rivoluzioni capaci di mascherare quella sottile patina di nostalgia che pervade le canzoni: se Luca Milani ha ormai maturato uno stile che si è affrancato dai suoi numerosi modelli di riferimento, con Idols si è lasciato trascinare dai fantasmi di Scott Weiland, Chris Cornell e di Kurt Cobain, così come dai ricordi di un’infanzia e un’adolescenza che il rock’n’roll, in qualche modo (e a colpi di chitarra), riesce sempre a tenere vivi. Essenziale (poco più di mezz’ora), con un sound brillante e raffinato quel tanto che basta, Idols può essere una sorpresa anche per chi segue Luca Milani da tempo, ma è un disco destinato a lasciare una traccia importante. Se invece volete la risposta quale sia lo strumento più dannoso al mondo, gli Hellm ci ricordano che l’aveva già data il più amato dei loro Idols, Kurt Cobain: “La televisione. La televisione è la cosa più sinistra del nostro pianeta. Va’ subito a prendere la tua TV e buttala dalla finestra o vendila e compra uno stereo migliore”. Poi, usatelo per sentire Idols. A tutto volume. (Marco Denti)