Dopo
una decina d’anni passati a masticare blues e rock’n’roll (una bella fetta dei
quali con Robi Zonca) Stefano Galli ha deciso, come è logico e naturale che
sia, di trovarsi la sua strada. L’ha fatto partendo da un gruppo solidissimo
che comprende Marco
Sacchitella alla batteria, Bobo Aiolfi al basso e il tastierista Francesco
Chebat i cui suoni hanno un ruolo non relativo nel creare la personalità della
Stefano Galli Band. All’esordio ha contribuito in fase di produzione Mauro
Galbiati, responsabile della qualità del suono di Play It Loud! e piccoli, significativi aiuti sono arrivati anche da
Veronica Sbergia e Max De Bernardi in Everybody
Shuffle e da Francesco Piu in I
Ride My Car. I nomi degli ospiti e il
curriculum delle chitarre suggeriscono già sufficienti coordinate per seguire
la Stefano Galli Band: con Play It Loud! si attraversano spazi molto americani e un repertorio che si fa carico
di una bella la versione di Mr. Robinson, piuttosto che di It Hurts Me Too di Elmore James o Can’t Find My Way Home o ancora un’originale interpretazione di Personal
Jesus. C’è spazio per i fiati, per
molte raffinatezze strumentali e per sfiorare certe vette inarrivabili. Per
dire, all’inizio, quando la Stefano Galli Band pesta duro in No Matter What
They Say, sembra di sentire i Black
Crowes periodo Three Snakes And One Charm e Winner potrebbe stare
su un disco di Tom Petty. Un bel modo per cominciare: alzate il volume, lo dice
anche il titolo. (Eddie Spinazzi)
mercoledì 29 maggio 2013
Etnoritmo
L’esperienza
degli Etnoritmo è frutto della vulcanica predisposizione di Paolo Farina,
iperattivo musicista pugliese (ma da anni trapiantato nella periferia milanese)
che nel 2000 ha assemblato il suo multiforme ensemble. Nel nucleo essenziale
degli Etnoritmo c’è uno spirito cosmopolita che, attraverso le rotte del
Mediterraneo, legge tutta una particolarissima mappa sonora. A dispetto dei
luoghi comuni, il dialetto diventa allora il linguaggio musicale più spontaneo
e un’occasione di incontro con altri modelli ed esperienze. Il primo disco, Sitanafri è già uno splendido esempio del vagabondare di Paolo
Farina, ma è con Tondomondo che
gli Etnoritmo raggiungono una precisa definizione, grazie anche a una canzone,
Le montagne sono alte, in cui
s’intrecciano italiano, pugliese, arabo e albanese. La ricchezza degli elementi
etnici non impedisce ad altre sfumature di emergere in modo più naturale ed
essendo una realtà in costante evoluzione, gli Etnoritmo si sono proiettati
anche verso una personalissima rilettura delle proprie canzoni nel recente Dall’acustico
all’elettrico, dove hanno ripescato e
riarrangiato selezioni di Sitanafri e
Tondomondo con un’apertura totale
per ospiti e amici che li hanno portati a convogliare in una colorita identità
le più svariate sonorità, dagli Stormy Six alla tammurriata. Contaminati,
espressivi, coraggiosi gli Etnoritmo sono l’esempio concreto di un mondo (senza
paure) ancora possibile. (Stefano Hourria)
venerdì 24 maggio 2013
Evasio Muraro
L’ondeggiante
sfarfallìo che introduce Scontro tempo in quel futuribile esempio di canzone d’autore italiana che è Venti
volte è sufficiente a comprendere che
la svolta cercata e voluta di Evasio Muraro si è compiuta in un disco di una
bellezza rarefatta e intensa, le cui mille forme si presentano in altrettanti
maiuscoli particolari. Giocoforza, Muraro deve condividere ampiamente il merito
con Chris Eckman la cui produzione, senza snaturarne le caratteristiche che
avevamo già apprezzato in Canzoni per uomini di latta e O tutto o l’amore, allarga le prospettive con un taglio molto affilato
e avanzato. L’effetto migliore della sua produzione, si presume, è comunque
aver uniformato e reso coerenti sfumature molto lontane, dal genialoide duetto
free tra batteria e sassofono di Giorni al funk di Puzzo di fame e Contiene il cielo alle personalissime visioni di Evasio Muraro in Scontro
tempo (un capolavoro), Il mondo
dimentica o Il maestro e la sua
chitarra. Il tutto confezionato
splendidamente in una ricca confezione al tempo minimale ed elegante, roba che
non si può scaricare aggratis, anche perché se c’è qualcosa che insegna il filo
dei discorsi sotterranei che scorre in Scontro tempo è che la bellezza ha un costo, se non altro nell’Infinito
viaggio che ci vuole per cercarla e,
per caso o per fortuna, trovarla. Qui c’è, ed è per questo che, almeno per
quanto mi riguarda, Scontro tempo
è il disco dell’anno. (Alessandra Longo)
giovedì 23 maggio 2013
Underfloor
Come
racconta gianCarlo Onorato nel suo bellissimo Ex (Vololibero Edizioni) c’è stato un momento in cui
Firenze era diventato l’epicentro dei nuovi suoni italiani. Non si tratta
soltanto di dischi e passioni, di un legame dichiarato con certe espressioni anglosassoni
(che gli Underfloor hanno assorbito e digerito a lungo), ma piuttosto del
prendere atto della consapevolezza dei propri mezzi, di essere in grado di
“formulare un progetto estetico e contenutistico, e in grado soprattutto di
creare importanti collegamenti tra la musica e le altre discipline”. Parole che
di adattano alla perfezione al quarto disco degli Underfloor, che vede
un’importante maturazione del gruppo fiorentino, cresciuto in termini di
arrangiamenti con la disposizione degli affascinanti archi di Giulia Nuti e
un’esperta suddivisione tra le priorità delle canzoni e gli improvvisi sviluppi
strumentali, dove le chitarre (in un bell’equilibrio tra elettriche e
acustiche), viola e violino e le tastiere si intrecciano con una corposa struttura
ritmica. Quattro è una concreta
prova di coraggio, che non teme smentite nella bizzarra e intensa evoluzione di
Stomp, nell’elegiaca Intorno a
me, nel gusto sonoro (analogico) che
ricorda quella Firenze, ipnotica e romantica, ormai uno stile (pop) a sé stante
che gli Underfloor hanno saputo trasformare in una proposta personale e
convincente. Compreso l’artwork di Quattro, semplice e accattivante, come
capita di rado. (Lucia Jorio)
martedì 21 maggio 2013
Gnola Blues Band
Si
può suonare in tutti i modi, dall’ultima bettola in provincia al più grande
teatro d’Italia, eppure continuare a sviluppare un’insana passione per la
musica, tale da superare anni e anni di intemperie. E’ quello che, imprevisti
compresi nel prezzo, ha fatto Maurizio Glielmo per almeno vent’anni con la
Gnola Blues Band. Vale la pena ricordare il disco che li riassume 20 Years
On The Road,
appunto: Gnola alias Maurizio Glielmo veniva da una lunga collaborazione con la
Treves Blues Band dove aveva dato eccellente prova di sé alla chitarra
(elettrica e slide in particolare) e da lì è partito con il suo album
d’esordio, First Step, che ha qui l’onore di inaugurare la sarabanda. Il
passaggio dall’amato vinile al digitale l’ha visto protagonista del suo disco
più rappresentativo, Walkin’ Through The Shadows Of The Blues, che poi ha dato linfa
vitale alle epiche performance della Gnola Blues Band. Un’idea la si può avere
spulciando anche 20 Years On The Road (il titolo non è lì a caso) in cui molte delle
passioni e delle influenze di Gnola vengono alla luce, dal Muddy Waters
immortalato nel Muddy Slide Tribute al John Hiatt di Feels Like Rain, sulle cui note ha
imparato a cantare. Oltre a essere un disco eccellente 20 Years On The Road è un bel riepilogo di
una storia ancora tutta da raccontare che vedrà la Gnola Blues Band, magari in
forme e dimensioni diverse, ancora a calcare i palchi, che per loro è come
giocare in casa. (Stefano Hourria)
lunedì 20 maggio 2013
Ernesto de Pascale
L’inverno
se l’è portato via ed è con una certa sorpresa che queste “sette canzoni mentre
la città sta dormendo” approdano in questa primavera ricca di pioggia e di
crepe e di niente. Seven Songs While The City Is Sleeping è abbastanza per ricordare che c’è sempre qualcosa,
oltre all’assenza, oltre alla perdita. Ernesto de Pascale, un essere devoto
anima e corpo alla musica, le aveva incise proprio così, una prima bozza,
registrate da Guido Melis e destinate a essere rilette, riviste, ampliate. A
trovare un loro destino, proprio mentre lui trovava il suo. Sono rimaste lì ad
asciugare quel tanto che basta finché collaboratori e amici di sempre (da
Giulia Nuti a Giovanni de Liguori) non le hanno liberate aggiungendoci lo
stretto necessario per rendere Seven Songs While The City Is Sleeping qualcosa in più di un (bellissimo) ricordo, un vero e
proprio “labour of love”, una
carezza gentile e discreta che non tiene conto delle imperfezioni,
dell’immediatezza o della natura essenziale delle registrazioni, proprio perché
riflette un momento, un lampo, un’illuminatio mentre intorno, ormai c’è solo
quel Desert City Of The Heart
cantato al mondo intero. L’eccezione, alla natura propria di Seven Songs
While The City Is Sleeping, va
cercata in fondo dove Wish You Well,
con sontuoso finale fiatistico, scioglie le riserve e si lascia raccogliere
come l’augurio di un grande appassionato. (Eddie Spinazzi)
domenica 19 maggio 2013
Virginiana Miller
Si vedeva già dall’esordio che i Virginiana
Miller avevano le carti in regola per lasciare un segno. Le passioni iniziali
arrivavano dal fascino della musica inglese, Cure e Smiths in testa, ma i
Virginiana Miller hanno avuto da subito il coraggio di inventare qualcosa di
nuovo, cercando di girare attorno alla canzone d’autore italiana con ironia e
pure con un accento surrealista. Supportate da un suono efficace, semplice e a
tratti trascinante: le chitarre ritmiche sembrano essere la spina dorsale di
tutti i brani, non mancano tocchi piacevoli di tastiere ma quello che davvero
sorprende è che il lavoro del gruppo, e della produzione, si è mosso tutto
attorno alle canzoni dando a Gelaterie sconsacrate un tono di maturità
abbastanza raro tra i gruppi italiani. Le canzoni dei Virginiana Miller
sembrano piccole descrizioni felliniane anche se i panorami non sono quelli
delle spiagge dell’Adriatico ma le litoranee di Livorno e dintorni: Gelaterie
sconsacrate
ha il sapore dei bagni marini mezzi abbandonati, delle scogliere sporche di
petrolio, di qualche attimo fuggente preso in prestito ai locali del porto. Si
sentono anche echi (sonori) di Tom Waits e dintorni, ma più in generale i
Virginiana Miller sembrano una felice organizzazione tra la caotica follia di
Piero Ciampi (loro ci mettono un po’ più di ordine) e un notevole gusto pop (se
non proprio popolare) di fondo. Assolutamente da riscoprire. (Lucia Jorio)
giovedì 16 maggio 2013
Osvaldo Ardenghi
Trent’anni fa Osvaldo Ardenghi imperversava nelle valli bergamasche lanciando fuoco e fiamme
dalla sua Stratocaster che evocava, una sera sì e l’altra pure, il fantasma di
Duane Allman. A differenza di oggi, la sfida non era trovare un posto dove
suonare, ma uscirne vivi e da lì, archiviate le glorie della Moss Band, Osvaldo
Ardenghi ha scelto mille peripezie per continuare a strapazzare le sue chitarre
che l’hanno portato a collaborare tanto con Enzo Jannacci quando con i Rusties
di Marco Grompi (poi suo complice all’armonica e ai cori). La sfida più
importante, alla fine, è quella con le proprie radici e Osvaldo Ardenghi l’ha
affrontata colorando i fiumi, la ghiaia, i ricordi dell’infanzia, la serie B
dell’Atalanta, le piazze e gli orti, tutto un piccolo mondo antico che ancora
(e per fortuna) resiste all’incuria, con i suoni di una rock’n’roll band ed è
così che una delle più intime dediche che si siano sentite al paesaggio
(bergamasco e non solo) Drec al cör,
suona come una canzone dei Crazy Horse (compreso il finale elettrico) o la
storia di un good old boy diventa, sì, Ü brao scet (un bravo ragazzo, nella traduzione corretta) ma
mantiene le sue prerogative country & western. Il dialetto delle valli si
presta alle scorribande elettriche di Osvaldo Ardenghi (La dea sembra persino un riff degli X) e per uno che va in
giro con l’autografo di Warren Haynes sulla chitarra arrivare Drec al cör è il minimo che si merita. (Stefano Hourria)
Milena Piazzoli
In
mezzo ai tormenti di rock’n’roll band, cantautori, ensemble più o meno
ispirati, è stata una vera e propria sorpresa scoprire le belle atmosfere di Change
di Milena Piazzoli. Cantante, dalla
squillante voce tenorile, chitarrista e all’occasione anche pianista e
percussionista, Milena Piazzoli frequenta con convinzione e senza paura
territori piuttosto distanti tra loro, come le canzoni degli chansonnier (bella
la versione di Eau à la bouche di
Serge Gainsbourg) e Parchfarm Man,
uno scorticatissimo blues di Bukka White, per dire soltanto due degli estremi
sfiorati da Change. Ci vuole
personalità per attraversare tanto spazio e Milena Piazzoli la rivela anche nel
suo personale songwriting che, pur sottolineando alcune influenze abbastanza
precise (probabilmente Joni Mitchell su tutte) ha caratteristiche peculiari
molto interessanti, e se serve un esempio, basta ascoltare Sensations per poi lasciarsi avvolgere dalla natura di Change. Anche perché Milena Piazzoli con l’aiuto di Max
Prandi e Vincenzo Giacalone alle chitarre nonché Alessandro Porro in sede di
produzione imbastisce un suono che ruota attorno alla sua chitarra acustica (e
alla voce, naturalmente) ma che ha molti spunti particolari, compresa la
fisarmonica di Mariangela Tandoi in Il ne marche e Morenica.
Change suona fresco, acuto,
intelligente e molto personale ed essendo un esordio, è di sicuro un bel modo
per cominciare. (Marco Denti)
mercoledì 15 maggio 2013
Francesco Piu
Solo
un piccolo promemoria per ricordare come Ma-moo tones abbia rappresentato un singolare turning point per
Francesco Piu. Disco dopo disco, si è ritagliato uno spazio di tutto rispetto
tra gli appassionati di blues, e non solo, perché ha allargato i suoi orizzonti
in modo repentino ed esponenziale. Di questa evoluzione Ma-moo tones è il simbolo più evidente: frutto di un lavoro di
ricerca che si nutre della sua notevole abilità tecnica alla chitarra (e ad
altri gingilli) per incrociare le radici della musica afroamericane con le
molteplici trasformazioni seguite nel corso di un paio di secoli. Si va
dall’arcaico Blind Willie Johnson a Jimi Hendrix, anche se il dato più
interessante di Ma-moo tones è il
salto di qualità della scrittura di Francesco Piu (spesso in collaborazione con
Daniele Tenca), protagonista nella stragrande maggioranza delle canzoni. Le
composizioni di Ma-moo tones, in
particolare Overdose Of Sorrow e Blind
Track, due tracce magnifiche, si
accostano con pari dignità a Soul Of A Man e Third From The Sun e
segnalano anche un particolare progresso di Francesco Piu in virtù di cantante
e interprete. Un segno netto di maturità, reso ancora più evidente dalla
produzione di Eric Bibb che ha reso Ma-moo tones un disco le cui ambizioni andavano ben oltre i
limitati confini nazionali e che ha meritato tutti i riconoscimenti ottenuti,
nessuno escluso. Rimaniamo in attesa del bis. (Stefano Hourria)
Smokey Fingers
E’
sempre sorprendente scoprire come alcuni stili, spesso riconducili a
particolari zone geografiche o a sensibili variazioni sul tema più esplicito
del rock’n’roll si siano propagate dall’America e abbiano trovato persino dalle
nostre parti espressioni appassionate e coinvolgenti, e fin qui è abbastanza
naturale, ma anche molto solide e congruenti. Per dire il nucleo primordiale
degli Smokey Fingers nasce da una costola di una rock’n’roll band sorta in
omaggio ai Lynyrd Skynyrd, da cui provenivano il batterista Daniele Vacchini e
il chitarrista Diego Dragoni. Le passioni per i “southern accents”, dagli
Allman Brothers ai Black Crowes gli hanno fatto trovare altri due compagni di
viaggio (Luca Paterniti e Fabrizio Costa) con i quali, pur mantenendo tutti i collegamenti
e le connessioni con le originali passioni hanno, hanno dato vita a una
versione originale di quel sound e alle canzoni che prima sono confluite
nell’EP omonimo, Smokey Fingers, e
poi in Columbus Way. Le “dita
fumanti” sono protagoniste in assoluto nel senso che Columbus Way è una dimostrazione di forza non indifferente, frutto
di una giovane rock’n’roll band che segue al meglio istinto ed energia, che al
momento è tutto quello che serve. Se poi gli Smokey Fingers non sono americani,
è tutto da discutere visto che vengono da Lodi, che è provincia italiana, ma
soprattutto una canzone dei Creedence Clearwater Revival. (Eddie Spinazzi)
venerdì 10 maggio 2013
Nagaila
E’
sicuro che un Viaggio di ritorno
come quello di Nagaila abbia bisogno di molto più spazio per esprimersi che il
ristretto, complicato e autoreferente panorama italiano. Talento vocale
indiscutibile, non soltanto per educazione ed estensione, Nagaila segue con una
spontanea naturalezza anche un’innata vocazione da interprete (che, per inciso,
ci piacerebbe vedere in modo più ampio e diffuso) nonché alla scrittura. Una
musicista poliedrica che nel suo Viaggio di ritorno ha avuto la fortuna di
incontrare altri due o tre musicisti in grado di dialogare, strada facendo con
lei. Il primo è Fidel Fogaroli, eclettico ed elegantissimo tastierista che è il
vero alter ego di Nagaila, aiutato poi in sede ritmica dal raffinato
percussionista Matteo Milesi. Al trio così composto da tempo si affianca il
tecnico del suono Mauro Galbiati con il quale hanno condiviso la produzione di Viaggio
di ritorno. Con ogni ragione perché
le trame avvolgenti in cui si muove la voce di Nagaila si dipanano
dall’interplay di Fidel Fogaroli e Matteo Milesi e dalle proiezioni
elettroniche che creano un sound originale, evoluto e per niente ostico
all’ascolto. La forma è sospesa tra la canzone d’autore, la ricerca e la
sperimentazione, una sottile e appassionata vena jazzistica in sottofondo e una
predilezione per la pop song nella migliore delle accezioni. Mettete Nagaila
tra Peter Gabriel e i Radiohead e si troverà a suo agio. (Lucia Jorio)
giovedì 9 maggio 2013
Paolo Bonfanti
Sarebbe
ora che qualcuno consegnasse a Paolo Bonfanti un riconoscimento, una targa, un
vitalizio, essendo uno dei musicisti italiani che possono vantare una gamma
affascinante di soluzioni e di invenzioni, nonché di linguaggi. Gran
chitarrista (basta sentire l’introduzione di Dark And Lonesome Night per farsene una ragione), raffinato ricercatore e
appassionato cantante, Paolo Bonfanti non ha avuto alcun timore, nel corso
degli anni, a confrontarsi con musicisti di livello assoluto, primo tra tutti
Roy Rogers, e quel taglio internazionale è diventato evidente con Takin’ A
Break, forse il suo disco più
personale e immediato, frutto della naturalezza con cui i musicisti che lo
seguono da tempo nelle sue peripezie (Roberto Bongianino alla fisarmonica e il
solidissimo team ritmico di Alessandro Pelle alla batteria e Stefano Risso al
basso) e di un songwriting meritevole di ogni possibile considerazione. Molto,
molto rock’n’roll, e su questo non si discute: gli esperimenti etnologici, il
dialetto, il cantautorato (tutti campi in cui Paolo Bonfanti si è destreggiato
senza esitazioni) qui sono rimandati. Le pause sono riservate alle ballate (Nowhere
Fast, splendida), ai blues (la
torbida Between Me And You) mentre la
slide di Paolo Bonfanti imperversa in tutto Takin’ A Break, compreso l’omaggio nascosto nella turbolenta Isolation
Row. Piccolo gioco di prestigio che
da solo gli vale il Grammy di HighwayItaly. (Alessandra Longo)
mercoledì 8 maggio 2013
Luca Milani
In
attesa del suo nuovo disco, Lost For Rock’n’Roll, previsto per il prossimo settembre, vale la pena
ricordare che Luca Milani giusto un paio d’anni fa ha inciso uno dei dischi
italiani più intensi degli ultimi anni. Sin Train è stata una vera sorpresa anche per chi aveva lo
aveva seguito prima nell’avventura, tutta italiana, dei File e poi con il nuovo
corso inaugurato da Scars And Tattoos.
Un sound asciutto, essenziale, con una produzione molto scarna eppure perfetta
per le malinconiche ballate e la personalissima voce di Luca Milani. In Sin
Train più ispirato che mai: Bandit, Jenny Stone, la tesissima Snow In Milan o l’ukulele di A Place To Stay Bright raccontavano allora come oggi di un songwriter capace
di affrancarsi dai propri sacrosanti modelli di riferimento (peraltro, molto
bella la sua versione dal vivo di No Surrender) e di trovarsi un’identità ben definita. Alcuni
passaggi di Sin Train, come Old
August Sun o Letters From Prague non hanno nulla da invidiare ai colleghi inglesi o
americani e l’uso di quella lingua, per uno “lost for rock’n’roll” (appunto)
risulta alla fine molto più spontaneo e (in fondo) anche logico. Così quello
che colpisce di Sin Train, oltre
alla qualità delle canzoni e alle interpretazioni di Luca Milani, è il coraggio
di un suono con una visione, un senso, un’idea che si adatta allo scopo e
funziona alla perfezione, per cui ci sembra lecito aspettarsi il bis. (Stefano Hourria)
Furio Y La Santa Muerte
E’
un particolare “family affair” questa repentina apparizione di Furio Y La Santa
Muerte, un trio di rispetabilissimi ceffi che oltre a Dennis Ercole al basso
vede Furio e Paolo Ganz all’opera. Il primo (figlio) maltratta batteria e
percussioni con energia ed eleganza, buon sangue non mente. Il secondo (padre)
ha una carriera lunga così nelle notti veneziane (e oltre) come armonicista
(soprattutto), cantante e chitarrista nonché scrittore (consiglio caldamente,
tra gli altri, Armonicomio e Venice
Rock’n’Roll, Fernandel). C’è la sua
verve dietro le cinque canzoni radunate in Furio Y La Santa Muerte, una meteora fiammeggiante che usa inglese, spagnolo,
italiano e un po’ di dialetto (nella bonus track Un mondo roverso ovvero Venice Rock’n’Roll) per esplorare mondi e tempi che profumano di grandi
passioni: i deliziosi fiati di Andrea Barin (tromba) e Paolo Corposanto
(sassofono) in All In A Glance
ricordano certi ancheggiamenti di Willy De Ville e nella caotica Wildcat trasformano Furio Y La Santa Muerte in un’orchestrina
mariachi che suona laggiù da qualche parte sul border. Del resto Es Una
Noche De Viento, come spiegano
altrove, e se c’è qualcosa da aspettarsi, oltre all’inevitabile Coffee Grounds
Blues, è proprio la baraonda finale
di Un mondo roverso, una
confessione spontanea e genunina in Furio Y La Santa Muerte ammettono: non
siamo i Beatles e nemmeno i Rolling Stones, viviamo in una cantina, e forse è
meglio così. (Alessandra Longo)
martedì 7 maggio 2013
Lowlands
C’è
un secolo di Woody Guthrie in quello bellissimo omaggio che gli hanno regalato
i Lowlands, allargati da una nutrita schiera di amici raccolti qui e là in
studi di registrazione improvvisati, garage, cantine, cucine. Le estemporanee
location e la variopinta natura della comitiva riunita attorno ai Lowlands non
devono indurre alla tentazione di considerare Better World Coming frutto del caso e dell’occasione perché i numerosi
talenti guidati da Edward Abbiati hanno colto lo spirito come una piccola
comunità, con le stesse intenzioni e soprattutto condividendo quella che è
l’unica, vera di Woody Guthrie, ovvero il suo songbook. L’esempio più evidente
è la corale versione di Plane Wreck At Los Gatos (Deportee) dove cantano e suonano più o meno tutti gli invitati,
ma ho un debole per quella More Pretty Girls rivista con i toni baritonali cari a Tom Waits. Le
altre interpretazioni di Better World Coming di sicuro non sono da meno e il coraggio e
l’intemperanza con cui i Lowlands hanno affrontato Woody Guthrie ricorda il
lavoro fatto da Billy Bragg con i Wilco per i due volumi di Mermaid Avenue. L’altisonante paragone è voluto e dovuto perché Better
World Coming merita il giusto
riconoscimento per come è stato ideato, vissuto e suonato e soprattutto per
come i Lowlands hanno saputo rileggere la figura di Woody Guthrie in libertà,
senza patemi e pregiudizi. Da scoprire e riscoprire, è un gioiello che
resisterà nel tempo. (Eddie Spinazzi)
lunedì 6 maggio 2013
Daniele Ronda
Era in qualche modo inevitabile che il viaggio
di Daniele Ronda andasse a cercare qualcosa sul confine, essendo tutta la sua
storia qualcosa che intreccia mondi diversi e spesso distanti tra loro. Ed è
stato altrettanto naturale che una specie di approdo Daniele Ronda l’abbia
trovato sulle rive del Po, tornando a casa. La sirena del Po, uscito sul finire
dell’anno scorso, si è infatti sviluppato sulla strada strada, immortalando
scene di vita quotidiana in canzoni come l’esuberante e ironica Al Rolex o raccogliendo antiche
tradizioni e leggende sulle rive del fiume, come succede con l’affascinante
storia raccontata con La sirena del Po. Nella metamorfosi di Daniele Ronda che,
passo dopo passo, con i piedi per terra, nella sua terra, si avvia a diventare
una delle novità più interessanti della musica italiana degli ultimi anni, ha
questa capacità di raccontare le minuzie della realtà, le faticose e
malinconiche ballate di un’umanità distratta e difficile, con la gioiosa
fragranza di un’allegria contagiosa, che induce a ballare e a divertirsi, senza
dimenticare cosa c’è là fuori. La sirena del Po è un piccolo mondo
antico dove l’Irlanda non è così lontana dall’Emilia e in cui ogni linguaggio,
il dialetto, l’italiano, la birra è ammesso e consentito: l’importante è
capirsi e divertirsi, sembra dire, e se non basta il disco lo troverete in ogni
angolo possibile quest’estate e dal vivo è anche più genuino e ruspante. (Lucia
Jorio)
domenica 5 maggio 2013
Daniele Tenca
Non
c’è dubbio che Wake Up Nation
segni un bel salto di qualità per Daniele Tenca, passaggio che assume ancora
più valore se si pensa che arriva dopo quel Blues For The Working Class ha rivelato una voce nuova, coraggiosa, intensa
capace di leggere un vocabolario, musicale e letterale, anglosassone e di
collocarlo in una solida realtà nostrana. Un sognatore con i piedi ben saldi
per terra, che vede nel rock’n’roll, la forma ideale per veicolare storie,
impressioni ed emozioni concrete e attuali: Wake Up Nation è una sintesi coraggiosa ed entusiasmante che carica
su un bel treno di chitarre, tutte intrise di blues, una vagonata di belle
canzoni, sentite, accurate, pungenti. Questo è quello che ci si aspetta da un
songwriter e/o da una musicista che vive il blues del ventunesimo secolo, per
dirlo con Steve Earle (un personaggio che non deve essere sconosciuto a Daniele
Tenca). Di suo, poi, Wake Up Nation
ci mette una ricerca sonora che lo distingue in modo nitido da Blues For The
Working Class, pur mantenendo un’indiscutibile
coerenza di fondo. In Wake Up Nation Daniele
Tenca si concede qualche apertura in più, sposando soluzioni inusuali e
originali nel contesto di un suono che ha, sì, uno spirito blues (a tratti
persino molto abrasivo) ma non si nega nemmeno un tuffo Into The Wild con la bella, pertinente e accorata versione di Society. Finale adeguato per uno dei dischi (italiani) più
belli di quest’anno. (Eddie Spinazzi)
venerdì 3 maggio 2013
Dada Tra
Il
disco d’esordio dei Dada Tra, gruppo che si è sviluppato “senza troppa fretta e
tensione ossessiva” (e direi che va bene così) attorno Camillo Achilli (basso),
Stefano Battiston (voce, chitarra acustica, tastiere), Corrado Campanella
(chitarre), Stefano Gilardone (batteria) e infine Gege Picollo (chitarre) ha
almeno un paio di risvolti da segnalare. Dal punto di vista musicale i Dada Tra
sembrano preferire certe influenze anglosassoni, con una vocazione spontanea
per l’intreccio delle chitarre acustiche ed elettriche che spesso diventa la
spina dorsale di lunghe intro o piccole suite in coda alle canzoni (basta
sentire il finale elettrico di The Golden Ass). Le sfumature psichedeliche, e in certi passaggi
persino progressive, sono fisiologiche e i Dada Tra mostrano di conoscere e
maneggiare gli argomenti (nonché gli strumenti) con un’inusuale destrezza. Le
atmosfere evocate, nelle canzoni in inglese, non hanno nulla da invidiare agli
originali e ai modelli di riferimento che appaiono ben digeriti e assimilati.
E’ la parte in cui sembrano più naturali e a loro agio, mentre nelle canzoni
cantate in italiano la sintesi non è altrimenti felice. Non è detto che le due
forme non possano convivere: è una questione di piccole sfumature, di
armonizzare qualche passaggio, in fondo di progredire nell’evoluzione che
questo disco ha appena inaugurato. Niente che i Dada Tra non possano
permettersi da qui in poi. (Stefano Hourria)
giovedì 2 maggio 2013
Psychic Twins
Massimo Monti, autore delle
parole di Crossings, e Fabrizio
Friggione, cantante, chitarrista nonché produttore, due gemelli legati dalla
musica più che dal DNA. In effetti, guardando la matematica sarebbero pure
divisi da due o tre generazioni, ma questo non conta molto quando l’incontro è
alimentato dalla comune passione per la musica. Una collaborazione che li ha
portati, oltre a coagulare un nutrito gruppo di validissimi strumentisti (tra
cui Paolo Legramandi al basso, da anni con Davide Van De Sfroos e ora nella
rinnovata Gnola Blues Band), a proporre una selezione di otto canzoni suonate
con energia ed entusiasmo e anche quel po’ di stile da rendere uniforme e
concreta quella che sembra un’idea estemporanea. La qualità stessa delle prestazioni
nonché delle incisioni convoglia l’attenzione a un altro livello, più alto. In
realtà gli Psychic Twins sono molto più efficienti di quanto sembrano o
vogliano apparire: Crossings
matura le sue peculiari caratteristiche tra derivazioni springsteeniane (gli
indizi si trovano già sulla copertina della bella e semplice confezione in
bianco e nero), molto blues travestito da rock’n’roll (e viceversa) e, tutto
sommato, in un lungo viaggio notturno dove la musica ha un ruolo predominante
nel definire tutto un mondo e le sue atmosfere. Per gli Psychic Twins, dicono
nelle note di Crossings, si tratta di
un linguaggio universale, è già grande abbastanza per loro due e offre porte
aperteper chi vuole entrarci. Avanti, c’è spazio. (Alessandra Longo)
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