Una
vocazione totale, incondizionata, dichiarata per il più puro e semplice
rock’n’roll, quello che prende forma con Chuck Berry e arriva fino a pub
londinesi dei Dr. Feelgood e dei Nine Below Zero: si potrebbe dire che Let
It Rock! contiene già
tutto nel suo titolo perché i Boogie Ramblers macinano accordi e ritmo con la
sfrenata energia di una locomotiva in corsa, senza perdere un briciolo
dell’entusiasmo degli appassionati. Non si inventano nulla, a parte un Harp
Attack micidiale (e che
non ha bisogno di traduzione), e pescano a piene mani nel repertorio del
principale ispiratore che lo è dei Boogie Ramblers come lo è stato degli Stones
(Come On). Alle
proprietà strumentali e alle tonnellate di feeling, i Boogie Ramblers
aggiungono anche il gusto raffinato e generoso di chi è capace di andare a
riscoprire anche il songbook di un piccolo, grande loser del rock’n’roll, Ben
Vaughn, di cui rileggono I Dig Your Wig e Dressed In Black, che era anche il titolo del suo disco migliore. Ottimi e
abbondanti su tutti i fronti, i Boogie Ramblers sono una splendida realtà del
rock’n’roll nella provincia italiana e come ha detto lo stesso Chuck Berry
hanno un gusto e un senso per quello che suonano “semplicemente eccellenti”. E’
consigliato l’ascolto ad alto volume, non sono previste controindicazioni di
sorta se non una piacevole euforia, specie se accompagnate l’ascolto di Let
It Rock! con un paio di
birre, che ci stanno tutte. (Eddie Spinazzi)
mercoledì 28 maggio 2014
venerdì 23 maggio 2014
Phono Emergency Tool
C’è molto Regno
Unito nel sound, energico e convincente, dei Phono Emergency Tool: un’idea di
canzone che parte da una forma di pop piuttosto evoluta e si lascia aperta una
gamma non indifferente di soluzioni. Il gruppo bolognese è un singolare trio
composto dai fratelli Andrea e Sandro Sgarzi alla chitarra e al basso e da
Marco Lama alla batteria, anche si premurano di dire che in qualche modo “sono
tutti chitarristi, bassisti e batteristi”. La precisazione non è formale: Phono
Emergency Tool sono un triangolo ritmico molto spigoloso dove le chitarre
schizzano feroci e inusuali (splendide in Blow Moulding Machine) eppure sempre all’interno di coordinate
che le riconducono alla forma della canzone. In questo i Phono Emergency Tool
hanno uno strumento in più, così come nell’ottima resa della registrazione che
li porta a un livello di qualità assolutamente internazionale. Anche perché la
compatezza del suono (sempre notevole, da Floating So Fast a Heyday) non toglie nulla alle proprietà e all’atmosfera
delle canzoni che fanno di Get The PET un esordio solidissimo, squillante, a tratti anche
sorprendente per la disinvoltura, l’essenzialità e la maturità con cui i Phono
Emergency Tool si presentano. Se avete qualche dubbio cominciate da A Lower
Life, una canzone che
sboccia proprio all’incrocio tra ballata e rumore che Kurt Cobain e Michael
Stipe hanno coltivato per anni. Non erano inglesi, okay, e nemmeno i Phono
Emergency Tool lo sono, ma non temono paragoni, già da adesso. (Marco Denti)
martedì 20 maggio 2014
Evasio Muraro
A un anno dall’uscita di Scontro tempo, senza dubbio uno dei
dischi più belli del 2013, vale la pena ripescare l’inizio del nuovo corso di
Evasio Muraro, quel Canzoni di uomini di latta con cui ha riavviato
una carriera solista che, disco dopo disco, continua a sorprenderci. Sono
convinta che in Scontro tempo ci sia molto più Canzoni per uomini di latta che O tutto o
l’amore:
Evasio Muraro è un musicista troppo poliedrico per nascondersi dietro una certa
uniformità sonora ed è troppo innamorato del rock’n’roll per restare incastrato
in una sola parentesi acustica. Se si fruga un po’ dentro le Canzoni per
uomini di latta,
si trovano già i germogli che poi fioriranno in Scontro tempo: alcune derive
ritmiche, certe divagazioni jazzistiche, tutto l’immaginario lirico condensato
da Miraggio
in poi, la vocazione per suoni eccentrici e ricercati. Canzoni per uomini di
latta è
ancora oggi un disco molto denso ed evoluto e, riascoltandolo alla luce di Scontro
tempo,
mostra quanto fossero coerenti certe intuizioni. Merita un cenno anche la parte
iconografica: Canzoni per uomini di latta non è il superlativo oggetto di
design confezionato per Scontro tempo, ma già allora era chiaro che Evasio Muraro non
si lascia costringere nei cliché e negli standard e anche nel formato banalotto
del compact disc riesce a propinarci la sua particolarissima visione artistica.
Un disco da riscoprire, a partire proprio da Distratto, piccolo, grande inno
dei nostri (miseri) tempi. (Lucia Jorio)
mercoledì 23 aprile 2014
Stephane TV
E’
uno strano oggetto non identificato, questo Lullabirds degli Stephane TV, frutto della liquidità del mondo
digitale, dove tutto può succedere, e in genere succede. Non è il loro disco
d’esordio (e restiamo ancora in attesa), anche se raccoglie i frutti dispersi
del work in progress che li ha portati a incidere e a pubblicare tre diversi EP
nonché un paio di interpretazioni d’autore, Nick Drake e gli Stones (giusto per
ricordare di cosa stiamo parlando) nei tributi promossi dalla benemerita
Martiné Records. Non è un’antologia perché è logico pensare che gli Stephane TV
abbiamo più futuro davanti che passato alle spalle, eppure rimane a oggi la
loro sequenza musicale più rappresentativa e coerente. Qualcosa dovrà pur
essere, Lullabirds, e allora
scorrendo le quattordici canzoni allineate giusto sulla durata di un’ora
(secondo più, secondo meno) è facile scoprire che si tratta della migliore
dimostrazione possibile delle qualità degli Stephane TV. Lullabirds è la conferma che sono capaci, anche sulla lunga distanza,
di regalare una nutrita varietà di atmosfere (che devono molto alle loro
passioni cinematografiche), sempre costruite da un’architettura strumentale
insolita e affascinante. Chi li ha seguiti EP dopo EP, (e ha fatto bene)
ritroverà un sacco di piccole sorprese sonore, tutte intatte anche perché le
tracce sono state rimasterizzate per l’occasione. Chi incontra qui per la prima
volta gli Stephane TV, è facile che faccia una gran bella scoperta. (Eddie Spinazzi)
martedì 1 aprile 2014
Daniele Ronda
Non è la prima
rivoluzione a cui Daniele Ronda si applica con il solito entusiasmo. Aveva già
lasciato la canzone leggera italiana per intrufolarsi nel mondo curioso del
dialetto e della tradizione, in cui si è districato con una destrezza tutta
sua. A riprova, La sirena del Po è
ancora lì da sentire, visto che è approdata sulle rive del fiume poco più di un
anno fa. Nel frattempo Daniele Ronda, oltre a macinare chilometri su chilometri
con un’intensità degna dei grandi artisti, ha scelto ancora di giocarsi il
futuro tirando la monetina, senza guardare troppo a cosa fanno il fuoco e il
tempo, due elementi che consumano senza rimedio. Ha rimesso mano al Folklub
(che non è mai stato così solido) e, sorpresa, tra la via Emilia e il West ha
schiacciato l’accelleratore proprio in quest’ultima direzione. La rivoluzione,
più che per l’universo lirico di Daniele Ronda, che si va delineando sempre con
maggiore precisione (basta concedergli Un attimo, per capirlo) si mette il gioco sollevando una gran
polvere di suoni irlandesi e americani, con alcune inedite sferzate di
rock’n’roll, che è sempre meglio della rivoluzione. Non si tratta proprio di
una novità, perché chi l’ha seguito dal vivo nei suoi coloriti happening sa che
il Folklub non bada a spese, ma dentro La rivoluzione è evidente che sta crescendo un capitano capace di
cambiare tutto, senza cambiare niente, che è poi la prerogativa principale per
diventare grandi. (Marco Denti)
martedì 18 marzo 2014
gianCarlo Onorato
Artista poliedrico, capace di passare con colta
disinvoltura dalla poesia alla pittura, dalla prosa (bellissimo il suo racconto autobiografico in ex) alla musica, gianCarlo
Onorato ha trovato con Sangue bianco il suo disco più maturo e intenso. La lunga e
laboriosa gestazione, dovuta ad un certosino lavoro di precisione attorno ai
suoni e alle canzoni. Cinque diversi studi di registrazione, una moltitudine di
musicisti, un ordito di idee e di arrangiamenti affascinante nella sua
complessità rendono Sangue bianco una svolta importante nel modo di sentire e interpretare
le canzoni in italiano. Non c’è nulla in comune con la banalità radiofonica o
con le semplificazioni melodiche: gianCarlo Onorato è un artista che, fin dagli
esordi, predilige scavare in profondità, cercando soluzioni liriche ed
estetiche certo non immediate, ma sempre piene di significati e di emozioni. Sangue
bianco,
da questo punto di vista, è esemplare nel mostrare tutti i fuochi d’artificio
di cui dispone gianCarlo Onorato: canzoni costruite attorno a un linguaggio
limato parola per parola e verso dopo verso; suoni e arrangiamenti che, pur
sempre in debito (come è giusto che sia) con le sue passioni musicali
anglosassoni, hanno ormai una netta e distinta personalità; e, infine, quello
che è più imporante, una visione complessiva chiara e precisa. Dalla minimale
copertina all’ultima nota, Sangue bianco è un mondo di bellezza a parte, degno di
una grande e unico artista, peraltro ormai pronto a dargli un degno seguito. (Lucia Jorio)
sabato 15 marzo 2014
Michele Anelli & Chemako
Michele Anelli è stato un
pioniere sempre in anticipo sui tempi. Aveva capito la lezione springsteeniana,
i temi e le storie più che la musica, prima di tutti e ne aveva riproposto con
i Groovers una sua personale e convincente versione. Ha cambiato rotta, non
senza un certo coraggio, ispirato dalle forme mutevoli dei Wilco e nello stesso
tempo ha lavorato a lungo sulle canzoni popolari italiane, ancora una volta,
qualche anno prima che diventassero d’obbligo. Quello che gli mancava era un
passo che rispondesse al suo profilo e l’ha fatto collaborando con i Chemako:
il sound del disco è loro, solido, compatto, elettrico, essenziale, senza
fronzoli. La storia, le storie che ci sono dentro è quanto di più personale
abbia prodotto Michele Anelli: dall’intensa Ballata contro il tempo a Sono sempre nei guai, una pop song più o meno perfetta, tutto lo spettro
delle sue perlustrazioni sonore è ben rappresentato dall’uniforme
interpretazione dei Chemako e dall’indomita volontà di mettersi di nuovo in
gioco. Con canzoni che sono sentiti ritagli autobiografici (La strada
di mio padre), suggestive istantanee (Lettera
dal finestrino) o frammenti di vocabolari,
sempre attuali, ormai digeriti a lungo (Resisterò, Uomini e polvere, Sparare cantando). Al di là dei temi, le canzoni s’incastrano una
nell’altra nel definire il nuovo volto di un protagonista della musica italiana
che è stato capace di non restare fermo e di rinnovarsi in modo radicale, anche
dopo anni e anni di incessanti tentativi e ricerche. Non ne esistono tanti
altri. (Marco Denti)
venerdì 14 marzo 2014
Andrea Parodi
Soldati è stato un un disco la cui gestazione è cominciata in
modo singolare, visto che gran parte delle canzoni sono nate dal rapporto di
questo giovane e promettente cantautore con la nonna, la quale ha offerto,
attraverso i racconti di vita vissuta, l’idea centrale che è alla base del
disco, ovvero quella di “soldati”, la cui guerra è la propria vita quotidiana.
Un’idea forte e coraggiosa che Andrea Parodi ha voluto condividere con uno
stuolo impressionante di ospiti e collaboratori, convocati come se il disco
fosse una rappresentazione teatrale o un set cinematografico, per cui ogni
canzone necessitava di particolari interpreti e caratteri. Tra gli altri, vanno
ricordati i marchigiani The Gang, la milanese Laura Fedele, il collega e amico
fiorentino Massimiliano Larocca, ma anche l’americano Jono Manson e l’argentina
Suni Paz coinvolti a vario titolo nell’elaborata costruzione delle strutture
sonore del disco. Sarebbe riduttivo però considerare Andrea Parodi soltanto il
regista di un articolato complesso di collaborazioni e ospiti: la sua voce e la
sua chitarra, ma soprattutto la sua sconfinata passione per il rock’n’roll e
nello stesso tempo per la canzone d’autore, solo gli elementi che tessono e
organizzano una trama minuziosa e variopinta, dove le canzoni costituiscono i
tasselli di una visione molto più ampia. Raro esempio di una visione condivisa
e aperta alle sorprese, Soldati è
un piccolo gioiello che merita di essere riscoperto perché ha segnato una bella
deviazione nella storia della musica italiana. (Stefano Hourria)
giovedì 6 marzo 2014
Little Angel & The Bonecrashers
La presentazione ufficiale di
Little Angel & The Bonecrashers non è tanto da cercare nell’insieme di J.A.B., peraltro un altro ottimo esempio di quanto il
rock’n’roll sia stato compreso anche in quel sonnolento e ingrigito paese quale
è l’Italia, quanto nella sincera Just Another Band (e a questo livello la sincerità è tutto). Basta una
canzone per capirsi: Little Angel & The Bonecrashers macinano rock’n’roll e
country & western con una
continua sovrapposizione delle voci e delle chitarre e con un bello spirito di
gruppo, sempre attento ai livelli della birra non meno dei volumi degli
amplificatori. Non a caso, come se le chitarre non bastassero mai (ne hanno ben
tre in squadra), per finire J.A.B. hanno
convocato anche Davide Buffoli, un altro rock’n’roll heart come ce ne sono
pochi in Italia. Infine, li distingue un tocco particolare nel songwriting che
da Harry’s Wife a Poor
John ha sempre un certo riguardo per il
dettaglio della canzone, cosa che ad occhio e croce hanno imparato tanto da
Johnny Cash quanto dal Bruce Springsteen di The River. Un’altra importante fonte d’ispirazione deve essere
Neil Young e infatti Troubles Everyday suona massiccia, rumorosa e convinta come se l’avessero pescata da Ragged
Glory. Volendo, una conclusione che si
stacca un po’ dal resto di J.A.B.,
tracciando un confine per l’immediato e
mandando un segnale per il futuro. Come dire: okay, siamo solo un’altra
rock’n’roll band sulla strada, ma intanto ci facciamo sentire più che possiamo.
Non c’è altro modo. (Marco Denti)
giovedì 20 febbraio 2014
Circo Fantasma
A vent'anni giusti dall'uscita di I Knew Buffalo
Bill, estemporaneo incontro tra un pugno di musicisti fieramente undeground
(Jeremy Gluck dei Barracudas, Rowland S. Howard dei Birthday Party, Nikki
Sudden ed Epic Soundtracks di Swell Maps e Jacobites, e Jeffrey Lee Pierce dei
Gun Club) i veterani del Circo Fantasma gli hanno reso omaggio mutuandone la
libera intenzione e lo spirito molto informale e molto blues. Così hano ripreso
una quindici di canzoni, molte delle quali dal songbook del grande e folle
Jeffrey Lee Pierce (da cui l'assonanza del titolo) e le hanno incise con una
nutrita schiera di musicisti italiani e internazionali tra cui spiccano Steve
Wynn e Nikki Sudden (che a suo tempo aveva partecipato anche a I Knew Buffalo
Bill). Il lavoro oltre ad essere musicalmente impeccabile, nel senso di molto
fedele all'anima originaria, selvatica e spiritata, di I Knew Buffalo Bill.
Molte le canzoni che spiccano da Bad America a My Dreams, da River Of No Return
a Ill Wind, che tradiscono le passioni teatrali e cinematografiche del Circo
Fantasma e dei loro numerosi ospiti fino alla conclusiva My Heroine, unico
inedito e originale (peraltro pregevole) che ha il compito e l'onore di
chiudere uno dei dischi di rock'n'roll più interessanti ed importanti usciti
negli ultimi anni in Italia, e non solo. Per la ricercatezza, per l'arguzia,
per l'intensità e anche per quell'ormai più unico che raro spirito che lo
anima. Un disco che ha anticipato i gran lavori di The Jeffrey Lee Pierce Sessions Project, motivo in più, oggi, per essere riscoperto. (Eddie Spinazzi)
martedì 18 febbraio 2014
Bluedust
Con una padronanza
invidiabile nei rispettivi strumenti e una conoscenza enciclopedica della
musica americana, nei Bluedust sono confluite cinque personalità con un
bagaglio di esperienza che ha trovato in Blast From The Past una sua speciale definizione. Perry
Meroni, voce e chitarra, se non snocciola i tradizionali del bluegrass potrebbe
andare avanti per giorni a cantare Hank Williams ed Elvis. Dino Barbè al banjo
conduce le danze sulle orme di Earl Scruggs ma con un drive che ha sempre un
accento un po’ rock’n’roll, avendo frequentato a lungo quell’ambiente. Josh
Villa alla voce e al mandolino e Tony Spezzano alla chitarra e alla voce,
entrambi particolarmente brillanti, offrono i migliori contrappunti alle
interpretazioni dei Bluedust, ben sostenuti dal contrabbasso di Marco
Centemeri, che non perde un colpo che sia uno, neanche a sparargli. Senza
discostarsi troppo dagli standard, il bluegrass è il bluegrass, le regole sono
le regole, i Bluedust riescono però a infondere alle loro variazioni sul tema quel
pizzico di originalità da far sì che Blast From The Past sia godibilissimo dall’inizio alla fine
anche se il suo destino dichiarato è quello di ottenere un lasciapassare per
farsi sentire dal vivo, dove lo spettacolo è garantito. Dall’East Virginia
Blues a My Little Girl In
Tennessee, Blast From The Past è un viaggio a senso unico lungo le praterie e le radici del
bluegrass, ma attenzione alla versione di That’s All Right Mama, c’è sempre il più famoso fantasma
d’America in agguato. (Marco Denti)
domenica 16 febbraio 2014
Jama
L’esperienza variopinta della
copertina di Soma si riflette dettaglio per dettaglio nelle scoppiettanti forme
sonore proposte da Jama alias Gianmario Ferrario. A tratti sembra di risentire Back
To The Roots di John Mayall, dal vivo
ricorda moltissimo il primo Springsteen quello più disordinato e logorroico, in
alcuni passaggi coinvolge come Ben Harper e i suoi diretti discendenti ovvero
Jack Johnson e John Butler. Molto ritmo (macinato da Massimo Allevi al basso e
Francesco Croci alla batteria), molta psichedelia, una gran bella voce: Jama
non fa mistero poi delle sue influenze, in gran parte anglosassoni e tra
l’altro già rese esplicite negli omaggi contenuti in InToilettEual
And Poor, l’EP che ha preceduto Soma. Con John Martyn e Van Morrison a occupare un posto
stabile nella sua discoteca, Jama parte da lì per arrivare per modulare
divagazioni strumentali o il divertimento corale di Country Song che conclude Soma come se fosse una festa sull’aia,
con leggerezza e intelligenza. Altrove i percorsi sono più complessi perché la
ricchezza musicale di Jama e del suo trio (lui compreso) è abbastanza matura da
sapersi esprimere in modo efficace negli angoli di uno studio di registrazione,
anche se la spontaneità dal vivo è tutta un’altra storia. Soma rimane quindi un bel biglietto da visita per un
musicista che ha scelto un modo unico di proporsi, senza tanti patemi e con un
brio tutto suo. Tenetelo d’occhio. (Eddie Spinazzi)
martedì 11 febbraio 2014
Rumor
Dopo
un primo, omonimo e acerbissimo EP, i Rumor hanno spiccato un salto notevole
che si riflette in tutto e per tutto in questo Pois, un altro EP di cinque canzoni. Il taglio del trio,
all’epoca composta da Marco Platini alla voce (più basso, sinth e altre
diavolerie), Elia Anelli alle chitarre e Andrea Marini alle percussioni, si
accosta senza esitazioni alle nuove generazioni della musica italiana con un
uso spregiudicato della lingua e nessuna esitazione dal punto di vista
strumentale, dove hanno la tendenza a colpire duro e a lasciarsi andare. D’altra
parte, se possono i Baustelle, non si capisce perché non potrebbero anche i
Rumor: l’essenza chitarristica di Pois richiama echi lontani di Echo & The Bunnymen o degli Smiths (Iuvullai) o dei Cure, un patrimonio che in Italia ha sempre
trovato grande ospitalità, per arrivare a citare, anche con una certa
spudoratezza, i primi, indimenticabili U2 nell’inciso di Di notte di nuovo o nell’incipit di Diamine!. Il sound è convincente, deciso, solido e le canzoni meritano
di essere scoperte nel dettaglio, in particolare Il risveglio, un tour de force sonoro ed emotivo in cui Marco
Platini e i Rumor tutti sembrano esprimersi al meglio, compresa l’eccessiva
enfasi della coda finale. Belli solidi, i Rumor mostrano anche abbastanza
scaltrezza da chiudere Pois con Bambini una ballata tanto morbida nei suoni,
quanto oscura nelle parole, che ci stanno pure. Poco meno di venti minuti di
belle speranze. Ne sentiremo parlare ancora. (Stefano Hourria)
domenica 26 gennaio 2014
Malagang
E’ abbastanza condividere un piccolo paese e una grande passione per ritrovarsi, prima o poi, insieme. Filottrano è poco più di un villaggio sperso tra le colline marchigiane, ma è diventato ben noto a chiunque si occupi di musica italiana con appena un po' di discrezione in più del solito per aver dato i natali ai fratelli Severini, meglio noti come Gang, protagonisti di una lunga carriera piena di dischi stupendi e di un tour infinito che li vede sulla strada tutto l’anno, o quasi, a cantare canzoni e raccontare storie. I Malavida vengono da lì e sulle tracce dei Gang si sono mossi magari con un filo di esperienza in meno (verrà con il tempo) ma con la stessa destrezza. Incontrarsi sembrerebbe ovvio e naturale, ma non sempre è così facile incrociare strade che sono pur sempre diverse. I Malavida e i Gang sono stati aiutati più dalla comune passione che dalla stessa residenza o almeno così pare ascoltando Malagang. L’incontro però diventa una sorta di happening perché i Gang e i Malavida oltre a condividere vicoli e passioni hanno anche la stessa attitudine verso la strada e la musica e così ritrovarsi è stata l’occasione per rivedere la Banda Bassotti, i Border Radio, i Gente De Rua, i Radio Babylon e molti altri che sono intervenuti a vario titolo, nel riproporre un pugno di canzoni dei Malavida, degli stessi Gang e una rivisitazione, tra l’altro, di Straight To Hell degli ultimi Clash, modelli di riferimento per tutti. Un capitolo estemporaneo, peraltro non l’unico, nella storia dei Gang, ma emblematico nel mostrare lo spirito di condivisione che li anima. (Lucia Jorio)
venerdì 24 gennaio 2014
Mandolin' Brothers
Si può spiegare Far
Out dei Mandolin’ Brothers
con un concetto semplice, essenziale, elementare, diretto: rock’n’roll al suo
meglio. Dove abitano o che idioma parlano quando non cantano rimane un fattore
abbastanza trascurabile, a questo punto: i Mandolin’ Brothers, qui coadiuvati
con grande discrezione e assoluta dedizione alla causa da Jono Manson,
dimostrano con Far Out
di padroneggiare la lingua del rock’n’roll con tutta quella naturalezza che
viene da un’insolita e instabile quel tanto che basta miscela di esperienza e
istinto. Del primo ingrediente di questa gioiosa nitroglicerina, i Mandolin’
Brothers ne hanno in abbondanza, essendo sulla strada da oltre trent’anni. Del
secondo, sono ancora così appassionati, e in Far Out a tratti si sente persino a livello
epidermico, da essersi lasciati alle spalle, senza troppe esitazioni, anche un
disco (splendido) come Still Got Dreams. Con Far Out, e lo dice il titolo stesso, si sono allontanati da
casa, parecchio, e in effetti la confluenza di intenzioni tra Mandolin’
Brothers e Jono Manson ha prodotto qualcosa di diverso, rivelando un’elasticità
e una visione, in prospettiva, del tutto inedite. I capolavori sono altri,
d’accordo e nessuno in questa sede ha intenzione di contraddire i giudici, i
critici e le enciclopedie. I Mandolin’ Brothers (e Jono Manson, che abbiamo
adottato) vivono il rock’n’roll in un altro modo, che poi è quello giusto. Con
un riff in più e il volume leggermente alticcio, che è poi il senso giusto con
cui accostarsi a Far Out.
(Eddie Spinazzi)
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