Dopo quarant’anni una rock’n’roll band potrebbe accontentarsi di ripetere il miracolo della sua sopravvivenza, come fanno i Rolling Stones, del resto, e invece i Mandolin’ Brothers, che hanno più o meno la stessa longevità, fuggono ogni tentativo di celebrazione e si rimettono in gioco. 6 è la prova tangibile di un passione che va ben oltre le incombenze quotidiane e si alimenta di un’aderenza a uno stile e a un’identità (che tutti questi anni non sono passati invano) così come si nutre di una costante curiosità. Per cui se i Mandolin’ Brothers suonano più compatti e coesi che mai, probabilmente grazie anche alla collaborazione coordinata e continuata con Jono Manson, ormai parte in causa della storia, d’altra parte sfoggiano divagazioni strumentali (le slide e l’organo che si inseguono in My Girl In Blue) che un tempo erano riservate agli spazi dei concerti, distribuiscono le armonie vocali con rinnovata saggezza e aggiungono altri dettagli alla loro visione del songwriting. Pur essendo un album ingolfato di chitarre, 6 trova il modo di collezionare canzoni degne di stare in un’ipotetica antologia dei Mandolin’ Brothers e sono da citare almeno Down Here, It’s Time, A Sip Of Life, la soffusa Lazy Day nonché il poderoso riff di Lost Love, che non ha nulla da invidiare ai Black Crowes. Nelle pieghe di 6 c’è molto altro da scoprire, ma più di tutto c’è la splendida anomalia dei Mandolin’ Brothers, una rock’n’roll band con un grande passato alle spalle, e un occhio sempre puntato sul futuro. (Marco Denti)
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