Dalla fucina dei Downtown Studios di Pavia, un nuovo capitolo arricchisce l’avventura dei Fungus. L’ensemble a geometria variabile, eclettico, eccentrico ed eterogeneo nella composizione, ma coerente alla sua natura visionaria e psichedelica, sviluppa gli Stati uniti del nulla (un ottimo titolo) partendo dall’attitudine libera e curiosa di sempre, eppure con un’inedita consapevolezza delle forme musicali. Alla dirompente carica ritmica sviluppata da Basna (basso, stick) e da Pupo (nessuna parentela con l’omonimo) alla batteria, si sovrappongono e si intersecano le divagazioni chitarristiche di Guido (i cognomi sono banditi) e la formula, pur assecondando il gusto dell’improvvisazione e dell’estrapolazione proprio dei Fungus, si mantiene intatta in tutte le prospettive su cui si dipanano gli Stati uniti del nulla. Un’identità ormai molto solida e riconoscibile che garantisce gli spazi ideali per modellare le canzoni che sono una piccola sorpresa. Strettamente connessi alle iperboli strumentali dei Fungus, i versi sono provocazioni iconoclaste, assemblate con gusto dadaista, ma anche con un senso spiccato per le immagini e per le metafore, e, non ultimo, con la sana propensione ad attraversare inediti universi, senza dimenticarsi (anzi) l’amara realtà che ci circonda. Una percezione coraggiosa ed esplicita che dice, in Stati uniti del nulla: “All’orizzonte vedo distese di alberi morti, il cielo non ha più colore, il sole è oscurato, questo non è un sogno, io ho visto il futuro”. È solo un esempio, poi nell’acido turbinio dei Fungus, emerge in Esagono, un verso genialoide che è molto raro sentire in una canzone italiana: “Son rimasto prigioniero di un esagono, senza capire come ci sia finito, per uscire devo fare il perimetro, ma ogni lato è un numero periodico”. Caotici, spiritati, fin troppo intelligenti: questi sono gli Stati uniti del nulla. Per il resto, va da sé, c’è sempre Sanremo. (Marco Denti)
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